RESILIENZA
La prima volta in cui ho sentito questa parola è stata da un amico che me l’ha spiegata con una certa soddisfazione, come mi stesse offrendo una notizia di attualità.
Non mi risulta che le parole siano questioni di “moda”, ma quella invece lo era e lo si capiva chiaramente: si doveva imparare e basta, come fosse stata innestata nel sistema dall’esterno.
La cosa non è passata inosservata. Prima di allora, con resilienza si indicava infatti solo la proprietà dei materiali di resistere agli urti senza spezzarsi, la capacità dei corpi di rimbalzare e tornare indietro, la velocità con cui, in ecologia, un sistema ritorna, dopo una perturbazione, al suo stato iniziale. Ma persino la Treccani ha poi notato che “il salto dal settore tecnico-scientifico alla larga consumazione, resilienza l’ha fatto negli anni ‘10 di questo secolo, quando gli italiani si sono svegliati bombardati sui canali social e sui tradizionali mezzi stampa dal nuovo vocabolo seducente.”
È infatti attorno al 2014 che è iniziata la semina del concetto: “come resistere alle perturbazioni e diventare di gomma”.
Da allora “ogni anno sul tema vengono pubblicati libri, corsi di formazione, webinar, workshop, tesi di laurea, progetti a scuola e nelle aziende, ma anche magliette, gadget e tatuaggi. Molti tatuaggi. Una moda lanciata sui social da alcuni noti influencer, tra cui l’imprenditore Gianluca Vacchi, che in poco tempo ha raccolto moltissimi imitatori, trasformandolo in un fenomeno di massa”.
Solo su Instagram sono 480mila i post hastag/resilienza.
Questo rende vagamente l’idea di cosa sia la formazione del pensiero di massa: qui, per esempio, il percorso manipolativo, è passato anche dal corpo di Vacchi il quale, con qualche anno di anticipo, lo ha messo a disposizione nell'operazione generale di instillare nella massa il seme della remissività e della subordinazione felice.
Oggi che l’Europa ha prodotto il suo PNRR la parola Resilienza ci risulta definitivamente chiara e consultare la Treccani non serve più.
Lila Veneziani
